FENOMENOLOGIA DEL COLPO GROSSO - PARTE I


La droga è il prodotto ideale... la mercanzia finale. Nessuna propaganda è richiesta. Il
cliente striscerebbe su da una fognatura a supplicare di comprare... Il mercante di droga
non vende il suo prodotto al consumatore, lui vende il consumatore al suo prodotto. Non
migliora né semplifica la sua merce. Degrada e semplifica il cliente. Paga il suo personale
in droga. (William S. Burroughs - Il pasto nudo)

La testa mi doleva fortissimo, come se qualcuno me l'avesse presa ripetutamente a pedate per allenarsi a calciare punizioni come solo Roberto Carlos. Conoscevo bene quella sensazione, ci facevo i conti da anni, ma sostanzialmente non me ne fregava niente. Sopravvivevo comunque con una certa discrezione nella giungla urbana di Manhattan.

Un lungo cigolio del letto mi accompagnò fin verso il frigorifero, facendo eco alle mie articolazioni che scricchiolavano come quelle di un osteoartrotico.  Tutto questo rumore per un po' di sballo. Uno sballo da poco, 20… 30 dollari al massimo e l'idea che il caso mi avrebbe guidato in qualche esperienza degna di nota. Ma la clessidra della droga finisce in fretta e non ti guida necessariamente in qualche posto particolare. Per me era come saltare dentro un flipper, che mi sbattacchiava un po', prima di lanciarmi nell'iperspazio con tanto di lucette intermittenti... Ciò che è certo è che ti lascia tramortito per tutto il giorno successivo, con i tamburi di qualche popolo nativo dell'amazzonia a pestarti le meningi, le mani sudate, il nichilismo radicale e la voglia totale di solitudine.
Aprii il frigo ma era vuoto come la mia anima.
Sul tavolo un cimitero di stoviglie e suppellettili si era accumulato nel corso dei mesi ed era rimasto letteralmente incollato ad un siero composto di tequila, caffè e passata di pomodoro. L'odore era talmente insopportabile che avrebbe procurato ripetuti conati a chiunque, ma ci avevo fatto l'abitudine. E ormai nessuno mi passava più a trovare. Chi poteva desiderare la compagnia di un tossico in una città in cui il tempo è più prezioso del denaro? L'ultima volta che gli avevo telefonato, Champ, mi aveva risposto con una serie di sonori rutti prima di riagganciare la cornetta e Finnegan era sparito dalla circolazione, da quando era stato beccato con un paio di pederasti a Inwood Hill. L'unica che forse si sarebbe ancora degnata di darmi lo spago era Agnes, ma le ultime volte che avevamo scopato non era mai venuta. E lei era una di quelle bombe atomiche sempre a mille. Alla costante ricerca di emozioni forti. Roba che se non orgasmava almeno tre volte conficcandoti le unghie nella carne, mentre ti ansimava nelle orecchie, non avevi chance di essere il suo tipo. Ed io ultimamente ero sempre più moscio.
Così la mia esistenza scorreva nell'oscurità e nella precarietà totale del mio stato emozionale, senza lavoro, senza amici, in una casa che meritava di essere bruciata. Ed io con lei.
Scostai le tende dalla finestra ed il sole venne istantaneamente inghiottito dalle mie pupille, ancora dilatate dalle anfetamine.
Mi tornò in mente l'immagine di quel mio amico del college, in totale crisi di astinenza da oppio mentre si contorceva tra le coperte sudate. Chiusi di scatto le tende e di colpo l'ombra ripiombò nel mio antro.
Presi quindi a farmi spazio tra il mosaico di libri, giornali e bucce di arachidi sparsi per terra e mi raggomitolai sull'unico fazzoletto di moquette rimasto ancora attaccato al pavimento, in un angolino. Sentivo il freddo insinuarsi sotto l'epidermide e permeare fin dentro le ossa. Era come essere accoltellato da una stalattite. Non pagavo la bolletta del gas da ormai tre mesi e così quei ladri del comune avevano ben visto di sospendere il mio contratto di somministrazione.
Mi coprii con la prima pagina del New York Times del 15 settembre 2008, giorno in cui la Lehman Brothers annunciava il suo fallimento e mi alzai per andare in cucina a versarmi un bicchiere di Jim Beam.
Come facevo ad avere una bottiglia di Jim Beam? Semplice. L'aveva rubata quel cazzone di Lerry in un bar dalle parti dello Yankee Stadium la settimana scorsa. Si era presentato nel bel mezzo della notte con una prostituta e si era spalmato sul mio divano. Io non avevo toccato un goccio, ma lui se l'era quasi ciucciata tutta. Avevamo passato la serata a parlare dei bei vecchi tempi in cui scaricavamo i cargo giù al porto e nel mentre lui giocava coi grossi capezzoli di lei, con quella sua mano tozza e viscida.
Me ne versai quanto ne era rimasto. Circa quattro dita. Il giusto per riempire un bel bicchiere e per agire efficacemente contro quel freddo cane. Mi sentivo un po' come quell'attore sgangherato di quella commedia inglese dell' 87[1] in cui il protagonista all'inizio del film se la prende con il suo compare perché non c'è più niente da bere e la casa è gelida. Così prima si spalma una pomata su tutto il corpo e poi si beve la benzina per ricaricare lo zippo. Tirai la testa all'indietro e mi calai tutto il whiskey in un solo colpo. Un brivido mi percorse la schiena e improvvisamente iniziai a percepire una progressiva sensazione di calore e di benessere. Segnale che il mio alcolismo cronico era temporaneamente placato e che la temperatura corporea stava tornando a livelli ragionevoli.
Lanciai un sorriso verso il nulla al di là della finestra che si proiettava sulla skyline, oltre l'Hudson, e mi lasciai cadere sul pavimento in maniera un po' teatrale. Senza classe però, come lo farebbe un attore di poco talento. Anche quando ero da solo mi piaceva atteggiarmi. Come se fossi su un palcoscenico di fronte ad un pubblico di invisibili. Immaginifico frutto del mio narcisistico delirio paranoico.
Come mi sentivo? Uno straccio. Come se qualche orribile mostro mi avesse prelevato ad intervalli regolari tutto la felicità. Mi avesse prosciugato le energie e sul punto di finirmi mi avesse risparmiato condannandomi ad ulteriori sofferenze: l'ultimo istintivo tentativo di resistenza. In poche parole, in quel momento ero una kafkiana rappresentazione del decadimento umano a fronte del capitalismo globale. Un derelitto. Pronto per il collasso definitivo.
Mi tirai la pagina del giornale su fin sopra il collo ed esalai profondamente. Una nuvoletta di condensa si palesò di fronte ai miei occhi, prima di dissolversi nell'aria gelata dell'appartamento. Strisciai sbavando verso il camino e mi infilai in bocca un mozzicone, senza accenderlo. Sdraiato supino accartocciato nel giornale, presi a fissare la muffa che si stava lentamente evolvendo lungo il soffitto e in cui si poteva vagamente distinguere il profilo di Dean Martin. O forse era Woody Allen. Per qualche lisergica ragione la cosa sembrava dover essere trattata con la dovuta importanza. Passai un'indeterminata quantità di tempo a riflettere su chi dei due avesse il naso più brutto. Poi improvvisamente suonò il campanello.

Era uno di quei campanelli che quando suona ti trapana i timpani. Se fosse stato un citofono normale sarei stato colto dalla paranoia e avrei passato una buona mezz'ora ad immaginarmi le persone a me più sgradite nell'androne del palazzo. Sbirri, creditori, quelli che c'erano rimasti sotto o peggio… mia madre. Tutti in fila dietro la porta di casa, pronti a riempirmi la testa di rimproveri, considerazioni bigotte non richieste, generiche lamentele e a massacrarmi di sberle. Ma quel suono era insopportabile. Così mi materializzai in un baleno davanti alla porta e sbraitai al citofono: 
- Ciucciami il cazzo piedi piatti. Qui non c'è nessuno!
 - Harry? Harry sei tu?
La voce era quella di Billy lo zompo. L'avrei riconosciuta sussurrare tra mille altre in mezzo a Time Square. Eravamo praticamente cresciuti insieme Billy ed io. Quel cane etilico.  Lo avevano soprannominato così dopo essersi rotto tutti i denti, in una caduta rovinosa sulla pista di pattinaggio su ghiaccio di Central Park. Era il natale del 1999 e lui stava facendo il farfallone con una biondina che aveva rimorchiato ad una classe di yoga. Che poi perché uno come Billy lo zompo frequentasse posti del genere non si era mai capito. Era il classico tipo che vestiva sempre con un impermeabile lungo, gli occhiali da sole che non si levava fino a quando non faceva buio ed un berrettino di quelli che ti mandavano i bambini del Mato Grosso, quando facevi l'adozione a distanza. Essí, perché il buon vecchio Billy era cresciuto in una famiglia di cattolici praticanti e ci mancava poco che quelli lo spedissero a studiare teologia al seminario. Fatto sta che per ripagarsi il debito con il dentista si era messo a vendere erba. Erbaccia vi dico io. Roba che non se la fumerebbero nemmeno i portoricani.
- Cosa vuoi Billy? Sto male. Non sono in casa.
- Cosa vuol dire non sei in casa? Ma se sei al citofono con me in questo momento! Oppure puoi rispondere anche da un luogo diverso da quel cesso in cui vivi? Comunque ho una bottiglia di scotch vecchio mio! Dai fai presto che devo darti una notizia…
Non lo lasciai finire di parlare che gli avevo già aperto. Anche se era un cavolo di logorroico non potevo rifiutare del combustibile a chilometro zero, e per giunta gratis! Svernare era ormai diventato il mio unico imperativo categorico e dovevo approfittare di ogni fonte di approvvigionamento. La porta si chiuse con un colpo secco che mi rimbalzò nel cuore come una fucilata.
- Harry! Sei vivo allora? Cristo, eravamo tutti così preoccupati!
Tutti chi scusa? - Rimbeccai con una voce tremolante e fioca, come quella di chi è sul letto di morte, pronto a lasciare la vita terrena per sempre.
- Bè solo io e Champ in realtà. Ah, ed un paio di ragazzi del porto che ho beccato l'altra sera al bar.
- Niente notizie di Agnes? - Mi fissò di sbieco e sorrise ampiamente, svelando i denti di ceramica.
- Pare se la stia rigirando un nero della marina. Sai, uno di quelli in congedo temporaneo. Ma vedrai, non temere. Prima o poi ritornerà. Fanno sempre così.
Fanno sempre così… Detto da una che non vedeva l'ombra di una fica dai tempi del college suonava più una presa in giro che un'amichevole rassicurazione. Ricambiai il suo sorriso con uno sguardo triste e desolato ed andai a prendere i bicchieri di plastica in cucina, dato che quelli di vetro erano incollati al tavolo o ammucchiati nel lavello.
- Alla tua capitano! - Fece un solenne inchino, si tappò il naso come se dovesse andare in immersione e si schiantò il bicchiere nella gola. Faceva sempre così al primo giro. Diceva che il primo sorso gli faceva venire la nausea, anche se credo lo facesse per accentuare il suo modo d'essere bizzarro ed eccentrico. In questo, io e Billy, eravamo molto simili. Due attori mancati. Come i due protagonisti di quella commedia inglese dell'87. Solo che lui non era mio inquilino, o meglio, non ancora, ma stavo per scoprirlo. D'altronde non ci si presenta alle 10 del mattino, di un'anonima domenica di metà dicembre, con una boccia di scotch, senza un buon motivo. C'era qualcosa di frizzante in lui. Come una spuma serotoninica che mi stava lentamente svegliando da quel tepore esistenziale che mi aveva tanto logorato. Il suo sguardo era raggiante e sembrava sul punto di esplodere dalla voglia di raccontarmi quanto sapeva. Era uno sguardo che conoscevo, che avevo già visto in lui in gioventù, nei nostri deliri di onnipotenza adolescenziale. Ma no, non poteva essere. Non dopo tutti questi anni… Ma dentro di me lo sapevo. Forse dopo tanto tempo, alla fine, c'eravamo.
Billy lo zompo si versò un altro bicchiere di scotch e saltò improvvisamente sul divano ricoperto di ingiunzioni di pagamento (sì, per quelle bollette di cui vi dicevo prima). Scorreggiò sonoramente, come per richiamare l'attenzione dell'invisibile platea, poi si schiarì la gola e solennemente annunciò:
- Oggi è un gran giorno, Harry! Alleluja Alleluja! Oggi quel porco del notaio ha finalmente disposto l'esecuzione delle volontà testamentarie della mia vecchia. Sai che significa questo, eh Harry? Lo sai? Faremo il colpo alla Willer Bank!




[1] "Whitnail and I" (1987) di Bruce Robinson.

Commenti

Post più popolari